di Salvo Barbagallo
Il 2015 si è chiuso con le capitali del mondo blindate per la minaccia del terrorismo jihadista: è un ricatto al quale si deve sottostare anche per questo il 2016? E’ probabile, ma non è una questione “temporale”, nel senso che non si conclude ponendo un limite di tempo, anche se il Daesh/Isis (ma il “se” va sottolineato) dovesse essere sconfitto entro quest’anno appena iniziato. Non c’è da tirare in ballo l’ottimismo e il pessimismo, ma solo la necessità di guardare la realtà per quella che è, senza porre mistificazioni di sorta o alibi di varia natura.
La realtà è mutata non solo perché il terrorismo ha raggiunto l’Europa, il cuore dell’Europa con gli attentati a Parigi all’inizio dell’anno (il 7 gennaio) alla sede del giornale satirico Charlie Hebdo (12 vittime) e poi con gli attentati quasi a chiusura d’anno (il 13 novembre) al teatro Bataclan, allo Stade de France e a tre ristoranti (130 vittime). Ma l’orrore l’Europa l’aveva toccato direttamente anni prima, con gli attentati del 7 luglio 2005 a Londra a tre treni della metropolitana colpiti quasi contemporaneamente e dopo poco meno di un’ora con l’esplosione di un autobus. Quegli attacchi causarono 56 morti, inclusi gli attentatori kamikaze, e circa 700 feriti di cui un centinaio venne ricoverato in ospedale. E parliamo di attentati di marca jihadista e non di quelli portati avanti dall’IRA negli anni precedenti. Così come si è dimenticato il 24 maggio 2014 di Bruxelles quando uno jihadista (Mehdi Nemmouche) uccise quattro persone al Museo Ebraico.
Capitali blindate, intelligence in continuo stato di allerta, ora, come scrive Federica Macagnone sul quotidiano Il Messaggero, occhi puntati e attenzione massima sui jihadisti di ritorno dalla Siria. Secondo gli esperti di sicurezza dell’International Centre for the Study of Radicalisation and Political Violence, c’è una forte connessione tra possibili nuovi attentati e i Paesi dai quali molti di questi combattenti sono partiti per lottare a fianco ai miliziani dello Stato Islamico: le cinque nazioni ritenute a maggior rischio di attacchi sono Belgio, Francia, Germania, Regno Unito e Paesi Bassi. Secondo questa equazione, l’Italia non sarebbe tra i paesi più esposti.
E In Italia, se si esclude l’immagine ormai consueta delle forze armate in campo, ben visibili, in città come Roma e Milano, la percezione del “pericolo” non c’è. Non c’è in Sicilia, la regione che vede direttamente e riceve e accoglie maggiormente il flusso (mai interrotto) dei migranti/profughi, senza la minima preoccupazione se fra i disperati possano esserci infiltrati jihadisti di “passaggio”.
Il terrorismo jihadista ha mostrato la sua ferocia, ora vive di “rendita”. Anche e soprattutto quando non programma stragi imminenti. Non è certo con i bombardamenti che si può estirpare il cancro del Daesh/Isis e il pericolo di nuovi attentati: E non è certo con le analisi che si può andare alla radice di un male che, ormai, ha mille e mille derivazioni, molte delle quali, magari, hanno perduto il loro punto d’origine.
Allora, bisogna sottostare a un ricatto non stop? A un ricatto che mira a distruggere qualsiasi regola della convivenza civile? Questi “semplici” interrogativi dovrebbero indurre chi governa i Paesi del cosiddetto Occidente ad agire con unità d’intenti, mettendo da parte (una volta tanto!) i contrasti derivanti da interessi diversi, siano essi di natura economica, politica o militare. Dalla frantumazione delle azioni non nasce l’equilibrio. Dalle coalizioni opportunistiche nasce soltanto la confusione. E sulla mancanza di equilibrio e sulla confusione generata che trae forza il terrorismo jihadista.